Negli ultimi anni il mondo del lavoro è cambiato più velocemente delle nostre capacità di interpretarlo.
In particolare, l’ecosistema lavoro si è trovato ad affrontare due fenomeni sempre più evidenti: il quiet quitting e il quiet hiring, due campanelli d’allarme che chi si occupa di HR non può più permettersi di ignorare.
Se il quiet quitting, in un primo momento, poteva sembrare solo una “tendenza social”, i numeri raccontano tutt’altro: si tratta di un fenomeno strutturale, radicato e con impatti reali sul benessere delle persone, sulla produttività e persino sulla capacità delle aziende di attrarre e trattenere talento.
Non sorprende, quindi, che sia diventato un tema centrale nel dibattito economico e HR degli ultimi anni.
Secondo i dati dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, infatti:
I numeri (non solo in Italia) raccontano un mercato del lavoro in profonda trasformazione, dove da un lato crescono burnout, disallineamento e mancanza di senso, e dall’altro aumentano le pressioni sulle aziende, che per sopravvivere devono redistribuire competenze e responsabilità interne, spesso dando vita, volontariamente o meno, a forme di quiet hiring.
La definizione più diffusa e riconosciuta del quiet quitting arriva da Gallup, una delle fonti più autorevoli al mondo nella ricerca su engagement e lavoro: il quiet quitting descrive i lavoratori che “fanno solo ciò che è richiesto e sono psicologicamente distaccati dal loro lavoro”.
Facciamo quindi riferimento a quei professionisti che non lasciano l’azienda, ma che si impegnano il minimo indispensabile: niente proattività, nessuna disponibilità extra, riduzione al minimo dello sforzo emotivo e collaborativo.
Come abbiamo visto, il fenomeno è tutt’altro che marginale, in Italia ma anche nel resto del mondo.
Secondo Gallup, almeno il 50% dei lavoratori statunitensi rientra oggi nella categoria dei quiet quitters.

Il quiet quitting non nasce da pigrizia o scarso impegno, ma da una rottura del patto psicologico tra lavoratore e organizzazione.
Ci sono alcune cause ricorrenti e strutturali:
Se il quiet quitting descrive la ritrazione silenziosa dei lavoratori, il quiet hiring è la risposta , più o meno volontaria, di molte organizzazioni a un nuovo scenario di carenza di talenti.
Secondo Gartner, che ha reso popolare il termine, il quiet hiring è la pratica con cui un’azienda copre competenze o ruoli critici senza assumere nuove persone, ma ridistribuendo attività, ruoli e responsabilità all’interno dell’organizzazione.
Tecnicamente, con il quiet hiring si punta ad ottenere nuove competenze, ma senza nuove assunzioni.
Il quiet hiring può concretizzarsi in modi diversi:
Quiet quitting e quiet hiring sono due facce della stessa medaglia: entrambi nascono dal mismatch crescente tra ciò che i lavoratori possono (o vogliono) dare e ciò che le aziende chiedono.
Da un lato abbiamo una percentuale impattante di lavoratori italiani che si dichiarano dei quiet quitters: parliamo di circa 2,3 milioni di lavoratori, persone che fanno solo il minimo indispensabile perché non si sentono valorizzate o supportate (dati Osservatorio HR Polimi).
Dall’altro:
Il risultato è che molte aziende, non trovando le competenze necessarie, spingono sulle risorse interne, spesso senza adeguato supporto o riconoscimento. Da qui si innesca un circolo vizioso:
Il quiet hiring mal gestito (nuovi compiti senza sviluppo e senza riconoscimento) genera quiet quitting: le persone si sfiancano, perdono motivazione e “si spengono”.
Il quiet quitting diffuso (basso engagement, bassa proattività) spinge le aziende a fare quiet hiring: mancano competenze e il carico ricade su pochi.
Se è vero che quiet quitting e quiet hiring non sono fenomeni isolati, mal sintomo di un ecosistema del lavoro che sta cambiando radicalmente, è altrettanto vero che prevenire questi fenomeni significa intervenire sulle leve strutturali del benessere, dell’organizzazione del lavoro e della leadership.
Ecco alcune strategie da mettere in pratica per arginare il quiet quitting nelle relazioni di lavoro.
Una delle cause più citate del quiet quitting è la mancanza di chiarezza su ciò che ogni professionista è chiamato a fare e sulle sue responsabilità.
Questa ambiguità è fonte di disallineamento, frustrazione e passività operativa.
COSA PUÒ FARE UN HR:
Il quiet hiring nasce spesso da un problema reale: competenze che mancano.
Secondo un report di McKinsey, il 44% delle aziende ha già sperimentato gap di competenze importanti negli ultimi 5 anni e questo numero è destinato a crescere ancora.
Il problema è che molte organizzazioni reagiscono “spostando” attività e responsabilità senza una strategia.
COSA PUÒ FARE UN HR:
Tutte le ricerche convergono su un punto: la qualità del manager è la variabile più predittiva dell’engagement.
Per questo, prevenire quiet quitting significa lavorare sulla leadership in modo strutturato.
COSA PUÒ FARE UN HR:
Tra tutti i fattori che alimentano quiet quitting e turnover, la mancanza di sviluppo professionale è uno dei più sottovalutati, ma anche dei più documentati.
Nessuna strategia di engagement funziona davvero se i collaboratori percepiscono stagnazione. Questo non riguarda solo le aziende che non offrono percorsi formativi strutturati, ma anche quelle che non comunicano in modo chiaro le prospettive future, lasciando le persone in un limbo di incertezza che inevitabilmente alimenta disaffezione, disimpegno e, nei casi peggiori, quiet quitting.
Lo stesso fenomeno è osservabile dall’altro lato della medaglia. Secondo il LinkedIn Workplace Learning Report, tra le principali motivazioni per cui le persone restano in un’azienda c’è la possibilità di sviluppare nuove competenze e costruire un percorso di crescita realistico.
Quando questo non accade, le aziende si trovano costrette a coprire ruoli mancanti o competenze rare attraverso forme di quiet hiring.
Il ciclo quindi è chiaro: dove non esiste una strategia di sviluppo, aumenta la stagnazione → aumenta il turnover → cresce la necessità di spostare persone su nuove responsabilità → aumenta il rischio di quiet hiring.
COSA PUÒ FARE UN HR:
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Uno dei fattori che più alimenta quiet hiring e quiet quitting è la mancanza di visibilità reale sulle competenze interne.
Ad oggi, la maggior parte della workforce globale dovrà essere riqualificata nei prossimi anni causa AI & digitalizzazione.
COSA PUÒ FARE UN HR:
In un contesto in cui quiet quitting e quiet hiring sono spesso la conseguenza diretta di scarsa chiarezza sulle competenze, mancanza di crescita e valutazioni soggettive, gli HR hanno bisogno di strumenti che permettano di prendere decisioni basate sui dati e non sulle impressioni.
Skillvue combina scienze psicometriche avanzate con tecnologia AI proprietaria per permettere alle aziende di mappare e valutare competenze, potenziale e readiness dei collaboratori in modo rapido, oggettivo e scalabile.
In pochi minuti, gli Skill Assessment consentono di raccogliere evidenze comportamentali attraverso domande situazionali basate sul modello BEI (Behavioural Event Interview), test tecnici e scenari realistici. Il risultato è un quadro completo su:
Questo tipo di valutazione permette agli HR di intercettare prima i segnali di quiet quitting (disallineamento, demotivazione, mismatch di ruolo) e di evitare il quiet hiring, perché consente di capire davvero su chi investire, chi può crescere, chi rischia di sovraccaricarsi e quali competenze mancano davvero all’interno dell’organizzazione.
Se pensiamo ad un mercato del lavoro in cui la stragrande maggioranza delle aziende italiane fatica a trovare personale e quasi la metà della popolazione lavorativa valuta un cambiamento di ruolo, la capacità di conoscere, sviluppare e trattenere le proprie persone fa la differenza tra un’organizzazione reattiva e un’organizzazione in grado di costruire futuro.
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