Quiet quitting e quiet hiring: cosa significano e come affrontarli

Negli ultimi anni il mondo del lavoro è cambiato più velocemente delle nostre capacità di interpretarlo.

In particolare, l’ecosistema lavoro si è trovato ad affrontare due fenomeni sempre più evidenti: il quiet quitting e il quiet hiring, due campanelli d’allarme che chi si occupa di HR non può più permettersi di ignorare.

Se il quiet quitting, in un primo momento, poteva sembrare solo una “tendenza social”, i numeri raccontano tutt’altro: si tratta di un fenomeno strutturale, radicato e con impatti reali sul benessere delle persone, sulla produttività e persino sulla capacità delle aziende di attrarre e trattenere talento.

Non sorprende, quindi, che sia diventato un tema centrale nel dibattito economico e HR degli ultimi anni.

Secondo i dati dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, infatti:

  • 2,3 milioni di lavoratori (circa il 12%) sono quiet quitter: fanno il minimo indispensabile, sono emotivamente disconnessi e non si sentono valorizzati;
  • solo il 7% dei lavoratori italiani si definisce davvero “felice”;
  • appena l’11% sta bene contemporaneamente su benessere psicologico, relazionale e fisico;
  • il 42% si è assentato almeno una volta nell’ultimo anno per malessere psicologico o relazionale;
  • nonostante il 59% delle aziende preveda una crescita dell’organico, il 94% fatica a trovare personale, soprattutto profili digitali e tecnici.

I numeri (non solo in Italia) raccontano un mercato del lavoro in profonda trasformazione, dove da un lato crescono burnout, disallineamento e mancanza di senso, e dall’altro aumentano le pressioni sulle aziende, che per sopravvivere devono redistribuire competenze e responsabilità interne, spesso dando vita, volontariamente o meno, a forme di quiet hiring.

Quiet quitting: che cos’è, significato del termine

La definizione più diffusa e riconosciuta del quiet quitting arriva da Gallup, una delle fonti più autorevoli al mondo nella ricerca su engagement e lavoro: il quiet quitting descrive i lavoratori che “fanno solo ciò che è richiesto e sono psicologicamente distaccati dal loro lavoro”.

Facciamo quindi riferimento a quei professionisti che non lasciano l’azienda, ma che si impegnano il minimo indispensabile: niente proattività, nessuna disponibilità extra, riduzione al minimo dello sforzo emotivo e collaborativo.

Come abbiamo visto, il fenomeno è tutt’altro che marginale, in Italia ma anche nel resto del mondo.

Secondo Gallup, almeno il 50% dei lavoratori statunitensi rientra oggi nella categoria dei quiet quitters.

Quali sono le cause del quiet quitting?

Il quiet quitting non nasce da pigrizia o scarso impegno, ma da una rottura del patto psicologico tra lavoratore e organizzazione.


Ci sono alcune cause ricorrenti e strutturali:

  1. mancanza di chiarezza su ruoli, aspettative e priorità: secondo Gallup, meno di 4 giovani lavoratori su 10 (soprattutto tra Gen Z e Millennials) dichiarano di sapere con chiarezza cosa ci si aspetta da loro. Senza una direzione chiara, l’engagement dei professionisti calerà inevitabilmente;
  2. scarso supporto manageriale: Il quiet quitting è spesso una conseguenza diretta della qualità della gestione. Lo stesso Gallup afferma che il fenomeno è “un sintomo di cattivo management”: solo 1 manager su 3 si dichiara ingaggiato nel proprio ruolo, con un impatto immediato sui propri team;
  3. assenza di concrete opportunità di crescita: se le persone in azienda non vedono un futuro, difficilmente potranno investire sul loro presente;
  4. calo del benessere psicologico e relazionale: secondo un’indagine di UnoBravo, il 44% degli intervistati ha dichiarato di sentirsi stressato sul lavoro, mentre quasi uno su tre (29%) dice di aver vissuto un vero e proprio burnout;
  5. mancanza di riconoscimento e valorizzazione: il 12% dei quiet quitters italiani dichiara di “limitarsi al minimo” perché non si sente valorizzato né nei talenti né nel contributo.

Quiet hiring: che cos’è e cosa significa davvero?

Se il quiet quitting descrive la ritrazione silenziosa dei lavoratori, il quiet hiring è la risposta , più o meno volontaria, di molte organizzazioni a un nuovo scenario di carenza di talenti.

Secondo Gartner, che ha reso popolare il termine, il quiet hiring è la pratica con cui un’azienda copre competenze o ruoli critici senza assumere nuove persone, ma ridistribuendo attività, ruoli e responsabilità all’interno dell’organizzazione.

Tecnicamente, con il quiet hiring si punta ad ottenere nuove competenze, ma senza nuove assunzioni.

Il quiet hiring può concretizzarsi in modi diversi:

  • assegnare temporaneamente nuove responsabilità a chi è già nel team;
  • spostare persone da un reparto all’altro per colmare gap di competenze;
  • aumentare carichi e attività senza un corrispondente incremento di risorse;
  • ricorrere a consulenti esterni o freelance solo per attività puntuali.

Perché è collegato al quiet quitting?

Quiet quitting e quiet hiring sono due facce della stessa medaglia: entrambi nascono dal mismatch crescente tra ciò che i lavoratori possono (o vogliono) dare e ciò che le aziende chiedono.

Da un lato abbiamo una percentuale impattante di lavoratori italiani che si dichiarano dei quiet quitters: parliamo di circa 2,3 milioni di lavoratori, persone che fanno solo il minimo indispensabile perché non si sentono valorizzate o supportate (dati Osservatorio HR Polimi).

Dall’altro:

  • il 94% delle aziende italiane dichiara difficoltà nel reperire personale (competenze digitali ma anche tecniche e operative);
  • il 59% prevede crescita dell’organico, ma non riesce a coprirla.

Il risultato è che molte aziende, non trovando le competenze necessarie, spingono sulle risorse interne, spesso senza adeguato supporto o riconoscimento. Da qui si innesca un circolo vizioso:

Il quiet hiring mal gestito (nuovi compiti senza sviluppo e senza riconoscimento) genera quiet quitting: le persone si sfiancano, perdono motivazione e “si spengono”. 

Il quiet quitting diffuso (basso engagement, bassa proattività) spinge le aziende a fare quiet hiring: mancano competenze e il carico ricade su pochi.

Le strategie HR per prevenire quiet quitting e quiet hiring 

Se è vero che quiet quitting e quiet hiring non sono fenomeni isolati, mal sintomo di un ecosistema del lavoro che sta cambiando radicalmente, è altrettanto vero che prevenire questi fenomeni significa intervenire sulle leve strutturali del benessere, dell’organizzazione del lavoro e della leadership.

Ecco alcune strategie da mettere in pratica per arginare il quiet quitting nelle relazioni di lavoro.

1. Ripristinare la chiarezza organizzativa

Una delle cause più citate del quiet quitting è la mancanza di chiarezza su ciò che ogni professionista è chiamato a fare e sulle sue responsabilità.

Questa ambiguità è fonte di disallineamento, frustrazione e passività operativa.

COSA PUÒ FARE UN HR:

  • definire job responsibilities precise per ogni ruolo (evitando task “occulti” che si accumulano nel tempo);
  • mappare con strumenti chiari le priorità settimanali e mensili;
  • introdurre delle riunioni brevi di allineamento (daily/weekly) che riducono la dispersione;
  • mettere per iscritto le aspettative sulle performance, evitando supposizioni implicite.

2. Ridistribuire il carico di lavoro in modo sostenibile

Il quiet hiring nasce spesso da un problema reale: competenze che mancano.
Secondo un report di McKinsey, il 44% delle aziende ha già sperimentato gap di competenze importanti negli ultimi 5 anni e questo numero è destinato a crescere ancora.

Il problema è che molte organizzazioni reagiscono “spostando” attività e responsabilità senza una strategia.

COSA PUÒ FARE UN HR:

  • valutare i carichi reali con metriche come workload capacity e non solo con percezioni qualitative;
  • introdurre sistemi di prioritizzazione condivisi;
  • garantire percorsi di reskilling e upskilling prima di spostare le persone;
  • designare ruoli “ponte” solo temporaneamente e con compensazioni chiare.

3. Elevare la leadership

Tutte le ricerche convergono su un punto: la qualità del manager è la variabile più predittiva dell’engagement.

Per questo, prevenire quiet quitting significa lavorare sulla leadership in modo strutturato.

COSA PUÒ FARE UN HR:

  • formare i manager su 4 skill critiche: feedback, delega, riconoscimento, gestione dei conflitti;
  • creare una cultura delle conversazioni (non solo meeting operativi);
  • introdurre modelli di leadership situazionale che aiutino a supportare le persone in modo differenziato;
  • misurare la leadership con metriche come team NPS, tasso di retention e progression rate.

4. Percorsi di crescita trasparenti e realistici (contro stagnazione e turnover)

Tra tutti i fattori che alimentano quiet quitting e turnover, la mancanza di sviluppo professionale è uno dei più sottovalutati, ma anche dei più documentati. 

Nessuna strategia di engagement funziona davvero se i collaboratori percepiscono stagnazione. Questo non riguarda solo le aziende che non offrono percorsi formativi strutturati, ma anche quelle che non comunicano in modo chiaro le prospettive future, lasciando le persone in un limbo di incertezza che inevitabilmente alimenta disaffezione, disimpegno e, nei casi peggiori, quiet quitting.

Lo stesso fenomeno è osservabile dall’altro lato della medaglia. Secondo il LinkedIn Workplace Learning Report, tra le principali motivazioni per cui le persone restano in un’azienda c’è la possibilità di sviluppare nuove competenze e costruire un percorso di crescita realistico.

Quando questo non accade, le aziende si trovano costrette a coprire ruoli mancanti o competenze rare attraverso forme di quiet hiring.

Il ciclo quindi è chiaro: dove non esiste una strategia di sviluppo, aumenta la stagnazione → aumenta il turnover → cresce la necessità di spostare persone su nuove responsabilità → aumenta il rischio di quiet hiring.

COSA PUÒ FARE UN HR:

  • costruire career path visuali e comprensibili, anche per ruoli non manageriali;
  • rendere trasparenti i criteri di avanzamento;
  • favorire la mobilità interna basata sui dati, non sui rapporti personali.

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5. Mappare le competenze in modo oggettivo 

Uno dei fattori che più alimenta quiet hiring e quiet quitting è la mancanza di visibilità reale sulle competenze interne.

Ad oggi, la maggior parte della workforce globale dovrà essere riqualificata nei prossimi  anni causa AI & digitalizzazione.

COSA PUÒ FARE UN HR:

  • utilizzare assessment strutturati per mappare competenze tecniche, trasversali e potenziale;
  • creare skill inventory interne aggiornabili;
  • progettare team non sulla base delle persone “disponibili”, ma sui dati di competenza;
  • identificare talenti nascosti prima di ricorrere al mercato esterno.

In che modo Skillvue aiuta HR e aziende a prevenire quiet quitting e quiet hiring

In un contesto in cui quiet quitting e quiet hiring sono spesso la conseguenza diretta di scarsa chiarezza sulle competenze, mancanza di crescita e valutazioni soggettive, gli HR hanno bisogno di strumenti che permettano di prendere decisioni basate sui dati e non sulle impressioni.

Skillvue combina scienze psicometriche avanzate con tecnologia AI proprietaria per permettere alle aziende di mappare e valutare competenze, potenziale e readiness dei collaboratori in modo rapido, oggettivo e scalabile.

In pochi minuti, gli Skill Assessment consentono di raccogliere evidenze comportamentali attraverso domande situazionali basate sul modello BEI (Behavioural Event Interview), test tecnici e scenari realistici. Il risultato è un quadro completo su:

  • competenze organizzative e gestionali (pianificazione, delega, leadership operativa, problem solving);
  • competenze tecniche e digitali, con oltre 150+ skill test pronti all’uso;
  • potenziale di crescita e maturità professionale;
  • capacità di assumere responsabilità, guidare team o affrontare carichi di lavoro complessi.

Questo tipo di valutazione permette agli HR di intercettare prima i segnali di quiet quitting (disallineamento, demotivazione, mismatch di ruolo) e di evitare il quiet hiring, perché consente di capire davvero su chi investire, chi può crescere, chi rischia di sovraccaricarsi e quali competenze mancano davvero all’interno dell’organizzazione.

Se pensiamo ad un mercato del lavoro in cui la stragrande maggioranza delle aziende italiane fatica a trovare personale e quasi la metà della popolazione lavorativa valuta un cambiamento di ruolo, la capacità di conoscere, sviluppare e trattenere le proprie persone fa la differenza tra un’organizzazione reattiva e un’organizzazione in grado di costruire futuro.

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